Piazza Navona negli anni '40

Piazza Navona, anni ‘40

La Vigilia di Natale, a Roma, era tradizione preparare una quantità esagerata di fritto con la pastella, solo verdure, il pesce è stato aggiunto dopo. Si friggeva di tutto: carciofi, funghi, zucchine, patate, fiori di zucca ripieni con mozzarella ed alici, spicchi di mele, foglie di salvia e di basilico, cavolo bianco, cimette di broccoli, frittelline di foglie di broccoli, anelli di cipolla. Mia nonna stava davanti alla padella e friggeva, io l’aiutavo immergendo le verdure nella pastella. Mentre cucinavamo, ogni anno, non mancava mai un nuovo episodio della saga dei polli della sora Ermelinda.

Ermelinda era figlia di portieri; i nonni, i bisnonni lo erano stati e lei continuava la tradizione. Abitava in uno stanzone enorme, nel semi-interrato che anticamente era il dormitorio del Corpo di Guardia. Dalla guardiola, dove lei passava la giornata, gli armigeri, secoli addietro, controllavano gli accessi al palazzo cardinalizio risplendente del cortile bramantesco.

C’erano due sole finestre in alto, vicino al soffitto. Davano sul vicolo sotto l’arco, chiuse da spesse grate e talmente piene di polvere sui vetri che la luce all’interno doveva rimanere sempre accesa.

Apparteneva a una famiglia numerosa, ogni anno i genitori davano alla luce un figlio. Dodici anni, dodici tra fratelli e sorelle prima che la madre morisse di spagnola aspettando la tredicesima. Si trovò dodici bambini da tirare su e aveva 14 anni. Crescendo, il bisogno di spazio aumentava, così il padre velocemente attaccava un chiodo su una parete, un altro sulla parete opposta, li collegava con uno spago, accavallava dei lenzuoli e creava una nuova stanza. Ora il padre era morto, dei fratelli e sorelle chi si era sposato e cambiato casa, chi diventato prete o monaca, chi emigrato in Australia, chi morto: era rimasto il camerone con la ragnatela di fili. Li usava per stendere i panni e per attaccare le stampelle con i suoi abiti.

Due ne aveva. Quello buono della domenica che indossava la mattina alla messa delle 6, e l’altro da lavoro: un saccone nero, lungo fino alle caviglie, diventato lucido dall’unto, con un grembiule sopra, inizialmente bianco, ora solo macchie. I lacci, che si annodava con un gran fiocco dietro la schiena, stringendole la vita non facevano altro che esaltare i fianchi sproporzionati rispetto alla magrezza delle caviglie. Il grembiule arrivava un po’ sotto le ginocchia e non copriva una enorme lacerazione che lasciava intravvedere le gambe fino a metà polpaccio.

Tutte le mattine, alle sette dopo aver detto messa, don Marcello, monsignore, prendeva la motocicletta, una Guzzi rossa, e andava nei dintorni di Roma, le malelingue dicevano a fare borsa nera con il carbone ricevuto dal Vaticano. Il compito di Ermelinda era quello di spingere la moto per agevolare la partenza. La lunga veste nera le si incastrava sotto i piedi: “Daje Ermelì – daje” incitava il monsignore, lei imperterrita spingeva noncurante del vestito. “Daje” oggi, “daje” domani, si era formato un enorme buco sulla veste che lasciava scoperte due gambe secche e bianche. Per fare la spesa a via dei Banchi ingentiliva la tenuta con un fiore finto nell’incavo della scollatura. Forse una margherita, una volta, visto che i petali se ne erano andati quasi tutti. Intorno al collo quello che lei chiamava “il baffo”, quattro code di animali, volpi, conigli e chissà cos’altro chiuse ad anello, regalo di Lola la pellicciaia.

L’unica cosa che possedeva erano cinque galline, padovane. Le lasciava razzolare nel cortile del Bramante. La sera all’imbrunire le chiamava per nome e le metteva a dormire su un giaciglio di paglia vicino al suo letto, dopo aver detto insieme le preghiere. Qualche anno prima uno dei fratelli le regalò dei pulcini “così te fanno le ova e quanno so’ granni te le magni”, lei però ci si era affezionata. A due aveva dato i nomi dei suoi genitori, ad uno quello del prete, gli altri due quello di un fratello e di una sorella morti.

Da pochi mesi era venuta ad abitare al primo piano dove corre la loggia la signora Primerano con marito e due figli. Erano state delle persone molto ricche ma il marito aveva il vizio del gioco e si ritrovò senza niente. Furono costretti a vendere tutto e andare in affitto. Unici oggetti rimasti dei fasti passati dei vasi di porcellana cinese con degli amarillis dai colori incredibili. Li aveva sistemati tutti in fila sul davanzale della loggia, affacciati sul cortile.

Non correva tra le due donne buon sangue, una sempre a raccontare dei pranzi fatti, della bellezza delle ville, dello sfarzo; l’altra, seccata da tutte quelle storie diceva in giro “La Primerano…. culo mio n’hai visto mai camicia…. quella c’ha ‘a puzza sott’ er naso”. E si prendeva il suo di naso tra indice e pollice e lo scuoteva a destra e sinistra così forte da farlo diventare bianco.

I nuovi arrivati per la verità, non se la passavano bene. Dal giorno del trasloco il cortile del Chiostro del Bramante era perennemente invaso dal forte odore di broccoli lessi. Per dispetto, tutto lo scarto della pulitura, la Primerano lo buttava nel cortile. Era per le galline diceva. Ermelinda si imbestialiva, cominciava ad agitare le braccia, ad andare avanti ed indietro e poi sbottava con urli e improperi verso la rivale. Il suo problema non era tanto per gli scarti dei broccoli di cui le galline erano ghiotte, quanto perché il cibo, a detta sua, doveva stagionare al sole 24 ore per uccidere i germi. La Primerano non guardava se nel cortile passasse qualcuno; lei si metteva con la sedia sulla loggia, i broccoli in grembo e man mano che puliva buttava gli scarti di sotto. Una volta capitò che la pioggia verde colpì proprio Ermelinda.

Il giorno dopo i gigli sulla loggia erano stati tutti sradicati e rimessi a testa in giù nei portavasi. Spuntavano solo le zolle di terra.

La notte di San Silvestro era uso per scaramanzia e buon augurio buttare per strada le cose vecchie. Le vie diventavano bianche di cocci come se fosse caduta la neve. Ermelinda aveva aiutato don Marcello a preparare la chiesa della Pace per la funzione poi era corsa a casa per cambiarsi per la messa di mezzanotte. La messa finì tardi, Don Marcello fece una predica lunghissima sulla condivisione e sul vivere in comunità in armonia. Era l’una passata, era stanca ed andò dritta a letto. Cominciava a prendere sonno, quando si sentì una voce di uomo urlare nel cortile “Ermelìììììììì, questa è robba bona, staggionata c’ha trent’anni…. daje questa a quei polli!!!”  Pochi secondi e un boato impressionante di legno e vetri rotti.  Si alzò di scatto, guardò il letto delle galline, era vuoto. Erano rimaste fuori. Prese la lampada a petrolio e si precipitò fuori in cortile. Avevano gettato un comò, con cassetti e specchiera.

Il prete fu obbligato a fare una funzione per le due salme e a benedirle, Ermelinda con il vestito della domenica e le tre galline superstiti in braccio seguì la funzione in lacrime.

Foto credit Roma Sparita