Passeggiare o spostarsi allo scoperto per le vie di Tadmor era diventato un rischio, una sfida alla morte incarnata dal giudizio estemporaneo di improvvisati santoni ebbri del prevalere della brutalità sulla civiltà. Una mattina si era imbattuto in uno di questi giudizi sommari contro una donna colpevole di non aver coperto a sufficienza le caviglie. Aveva cercato di prenderne le difese, ma se non fosse stato per il suo autista, che lo aveva salvato a stento, sarebbe stato lapidato come la sventurata. Fuggendo dal luogo non aveva potuto evitare che la sua mente andasse all’immagine della sua amata di sempre e di com’era entrata nella sua esistenza. Di tanto in tanto egli sognava, sì, di incontrare la donna della sua vita, immaginandola come una signora elegante e piena di fascino conturbante, ma difficile a conquistarsi. Tuttavia, la realtà del sito archeologico lo assorbiva completamente anche perché dai primi sondaggi e rilevamenti il sito mappato non era che un decimo (per difetto) di ciò che ci si poteva legittimamente aspettare come estensione della città antica. “Ma è bellissimo!” fu il suo prevedibile commento. Avevano dovuto scavare anni e anni per far emergere le singole componenti della città, una per una, con delicatezza e stupore, ricostruendo giorno per giorno l’antica urbanistica e le abitudini di una città che dormiva da 14 secoli. “Ti ho trovata!” pensò, mentre la gioia gli saliva alle stelle sentendo esaudito il suo desiderio. La signora elegante e riservata che aveva sognato era lì, davanti ai suoi occhi, aspettava di essere scoperta, teneramente, un po’ alla volta, senza mai concedersi troppo e rifuggendo schiva da un corteggiatore troppo diretto, ma a chi l’avrebbe compresa avrebbe schiuso tutti i suoi segreti. Le campagne di scavo sarebbero state lunghe e affamate di ingenti sovvenzioni che il governo non era tanto ben disposto a elargire. “Come fare?” si era chiesto ossessivamente. Aveva impiegato anni per far capire a Damasco che l’unica via percorribile era quella della collaborazione internazionale, ma per questo bisognava pubblicizzare il sito, essere disponibili a ospitare spedizioni straniere e allestire infrastrutture logistiche almeno minimamente funzionali. Ci era riuscito elencando i benefici che un flusso turistico rinnovato avrebbe portato al paese e il lustro che ne avrebbe ricavato il governo in carica. Aveva cominciato una serie di visite e conferenze nei principali atenei e musei del mondo catturando l’attenzione di molti su un progetto pazzesco, ovvero riportare alla luce la città intera.
Ogni volta che ritornava in patria tuttavia, preferiva ritornare a Tadmor, invece che starsene nei comodi alberghi della capitale od ospite della sua università che, ora sì, lo apprezzava. Come separarsi, infatti, dall’irresistibile richiamo di una elegante e bellissima signora che concede un solo velo alla volta?
Aveva messo a punto un programma flessibile e imponente di interventi suddivisi in base alle potenzialità degli sponsor. Negli anni vennero così riscoperti, scavati e consolidati il santuario di Baal, la via colonnata, il santuario di Nabu, le terme, il senato, l’agorà, il tempio di Baalshamin, le mura, la necropoli, la fonte d’acqua sulfurea e per finire venne curata la sistemazione e organizzazione del museo su criteri e spazi espositivi moderni. Gli anni erano passati, le spedizioni e le scoperte pure, ma ogni novità, anche la più insignificante, era stata fonte di estrema soddisfazione per lui e aveva contribuito a farlo innamorare ancor di più della sua signora del deserto.
I seguaci dell’autoproclamato “califfo” si erano tuttavia accorti di lui e ora erano lì, a casa sua, per arrestarlo.
Quel giorno (e anche nei successivi) gli chiesero di indicare tutti gli idoli pagani che poi avrebbero provveduto a distruggere come falsi dei e a rivelare il nascondiglio di quelli più piccoli, per il mercato nero. Nelle umiliazioni e nella miseria della sua prigione, egli ripensò a ciò che aveva fatto per la città: era stato sufficiente o avrebbe potuto fare qualcosa di più? Decise coraggiosamente di non collaborare. Così presero a torturarlo, per un lungo mese. Mentre infierivano sulle sue mani, cercò di ripensare a quella che aveva stretto al presidente francese Mitterand venuto in visita al sito. Non ce la faceva più. Si fece coraggio ricordando che se il mondo sapeva di quel posto era proprio grazie alla sua opera, nonostante ora la dinamite e i picconi di Daesh stessero cercando di cancellarlo. Incredibilmente, secondo i suoi persecutori, Kalid non parlava.
E finalmente il mondo aveva riscoperto Tadmor attraverso la persona che ne amava descrivere i particolari come un innamorato descrive la sua amata, a lungo desiderata e a lungo studiata. Egli indugiava spesso nell’affrescare l’antica vocazione della città: la sua apertura cosmopolita alle tante civiltà e mondi che le esistevano intorno, scambiandone beni e conoscenze e arricchendola in maniera incommensurabile. Quando descriveva le udienze della regina o l’arrivo delle carovane o l’inaugurazione di un tempio, non si limitava a una semplice elencazione, si immedesimava nella scena al punto da illustrarne i colori, gli odori e i suoni delle lingue usate dai commensali ai banchetti propiziatori e le note sulle quali ballavano esotiche danzatrici. Il sito era di nuovo frequentato da genti di ogni dove, sia per curiosità e turismo, sia per lavoro, sia per studio della storia di quell’angolo di mondo che ritornava a essere un crocevia aperto a tante culture.
Gli era stato tributato il merito di tutto questo e aveva ricevuto riconoscimenti e medaglie dal suo Paese, dalla Francia, dalla Polonia e dalla Tunisia, ma tornava immancabilmente laggiù. Tutto lo attraeva di lei, la fresca carezza delle brezze notturne, la passione infuocata delle torride insolazioni, l’universalità della cultura espressa in quel luogo, la suadente superficie dei suoi marmi, la comunanza della lingua condivisa da tanti popoli, i capricci durante il rabbioso soffiare del vento, l’estasi della quiete che seguiva, il seducente lasciarsi ammirare lento, ma inesorabile, la consapevolezza di ereditarne i segreti celati a tutti gli altri. Più volte gli avevano offerto la direzione del museo di Damasco, il rettorato all’università, ma lui non voleva né poteva allontanarsi dal suo grande amore, dalla sua dama del deserto. Era venuto il giorno della pensione, che aveva accettato solo per l’esigenza di lasciare spazio a giovani più dinamici di lui e dietro la promessa che avrebbe potuto rimanere come collaboratore della sovrintendenza. Non desiderava altro.
Nonostante la sua quiescenza, numerosi studiosi stranieri continuavano a fargli visita ed egli li accoglieva giovialmente sempre sulle scale del museo che aveva diretto per tanti anni.
Riconobbe quelle scale dove lo stavano portando dalla prigione e, sebbene gliene avessero nascosto il motivo, tutto era chiaro a lui che da qualche giorno ascoltava il silenzio che seguiva il vento, il vento che sin da ragazzo gli aveva confidato le storie che portava con sé e delle quali anche lui avrebbe fatto parte, dovendosi accomiatare dalla sua signora, bella come la sua più importante sovrana, la regina Bath-zabbai o Zenobia, come la conoscevano i Romani, che aveva reso grande per l’ultima volta il regno incentrato sulla città di Palmira.
Un altro granello di sabbia si levò nel vento millenario. In silenzio.