Khaled al-Asaad, Direttore delle antichità di Palmira dal 1963 al 2015. 

«In silenzio svanisce un’anima grande,
in silenzio, senza clamore, si spegne.
Scompare tra l’indifferenza e la violenza,
sparisce ai nostri occhi, ai nostri sensi,
ma è sempre qui, lo è sempre stata,
affidata alle ali del destino.»

Presi come siamo dagli effetti del vento millenario carico di profumi di terre lontane e ardente di sabbie infuocate, non ci avvediamo delle storie che esso raggiunge, avvolge e infine porta con sé.

Kalid stava sorseggiando in silenzio il suo tè, bollente come lo sarebbe stata la giornata, per questo si era alzato presto, per godere di quel poco di frescura che la notte consegnava al giorno come l’ultima carezza di un amante che si accomiata.

Mentre la città doveva ancora concepire i rumori del suo inesorabile e svogliato risveglio, dal terrazzo sgangherato della sua casa egli osservava la linea dell’orizzonte con i suoi dettagli ormai familiari: erano i luoghi della sua giovinezza e della sua grande passione, la passione di una intera vita.

Si sorprese ad accarezzare con lo sguardo le rovine della città antica che conosceva come l’antifona alle sure del Corano, trasse il consueto piacere nell’anticipare con la mente ogni spigolo, colonna, capitello e forma architettonica color giallo-miele, ruvida nella realtà delle pietre millenarie, ma che appariva grigia e liscia nella luce del mattino.

Stava quasi lasciandosi andare alla quotidiana e infinita lista mentale di interventi da dirigere e coordinare al museo e ai vari siti di scavo, quando un particolare inconsueto lo scosse dalla piacevole estasi, non senza disappunto. Una nuvola rettilinea di polvere accompagnava numerosi mezzi ruotati che provenivano dalla strada del nord, ancora silenti per la distanza, ma concreti nel baluginare dei riflessi sui vetri e sulle lucide lamiere: sembravano almeno due dozzine di gipponi fuoristrada. Istintivamente allarmato, si sporse per cercare il posto di blocco dei soldati in strada, ma non vide nessuno e seppe che i soldati li avevano abbandonati. Non c’era molto che potesse fare o che non avesse già fatto, quindi bevendo il suo tè con la flemma di chi ha vissuto, si abbandonò allo strano paragone che gli era sorto all’improvviso tra la polvere alzata dai veicoli e quella della sabbia che il vento sollevava, uno dei primi ricordi della sua infanzia.

Era un ragazzino non troppo alto e gracile, ma non temeva il vento del deserto che da subito aveva imparato a conoscere, giocando tra i polverosi e lerci vicoli del suo paese natale, sentendosi quasi purificato dalle sue sferzanti sabbie abrasive e dal suo rumore continuo e ossessivo, mentre il lezzo dell’immondizia abbandonata dagli uomini veniva spazzato via. I granelli amari e duri che inevitabilmente si ritrovava in bocca servivano a ricordargli che il vento veniva anche per modificare i destini delle persone, compreso il suo: erano testimoni immortali di milioni di vite che erano state vissute prima di lui. Questo gli aveva raccontato un giorno il vecchio cantastorie che con i suoi abiti consunti, labbra sbilenche e alito di denti rotti, a fatica nascosto anche dall’infuso più aromatico, emetteva i duri suoni della lingua araba narrando storie fantastiche. Davanti al tè del pomeriggio, nell’attesa che gli elementi si placassero, mentre tutti gli altri avventori si annoiavano o parlavano di politica, quei racconti erano diventati il suo passatempo preferito e fantasticava per ore sulle scarne e incredibili, ma affascinanti favole raccontate dal vecchio.

Kalid ascoltava rapito le imprese dei re buoni e le nefandezze di quelli sanguinari, la descrizione assolutamente falsa, ma così bella, di battaglie incredibili, di amori sfortunati e dei trionfi di quelli realizzati, della conquista di fortune incommensurabili, dell’esercizio di magie buone e cattive, di apparizioni di geni e angeli, degli insospettabili intrecci del destino, delle prove assolute dell’esistenza di intere città sepolte abitate da splendide e crudelissime fanciulle. Quando infine il soffio cessava, la ripresa delle attività umane lo disturbava sempre, poiché riteneva ingiusto sprecare il silenzio che, dopo il vento, Allah mandava per far meditare gli uomini sull’infinito intrecciarsi di sentimenti e gesta.

I gipponi erano intanto entrati in città. Negli ultimi tempi, molti amici e conoscenti lo avevano messo in guardia sulle azioni nefaste di uomini senza scrupoli con la bandiera nera, ma Kalid aveva visto fin troppe guerre per spaventarsi, tutte erano passate col loro carico di sciagure e non avevano toccato mai l’essenza della sua passione. Non era, tuttavia, il momento di essere sprovveduti ed egli era ben conscio della triste fine che avevano fatto i reperti del museo di Mosul, trafugati da quegli uomini per venderli illegalmente o, nella peggiore delle ipotesi, distrutti a picconate o a colpi di dinamite, una volta che la città era caduta, per questo aveva fatto trasportare a Damasco una buona parte dei reperti del museo della città. Ma era rimasto, confidando in un improbabile contrattacco dei soldati oppure con la speranza che la sua presenza, per autorità, per i suoi contatti, o al limite attraverso il mercanteggiamento di alcuni pezzi minori avrebbe potuto salvare il sito. Finì il suo tè mentre la città si stava risvegliando, anche se quel giorno non sarebbe stato uguale agli altri. Le monotone e autoreferenziali invocazioni dei barbuti arrivati con i gipponi contrastavano con la sua poliedrica sete di conoscenza e apertura ai mondi estranei al proprio.

All’università di Damasco Kalid, ormai grande, aveva fatto evolvere le sue fantasie giovanili (originate dalle parole del cantastorie) in concreti obiettivi di studio, sostenendo un esame dopo l’altro del corso di laurea in archeologia, mai pago di sapere, raccogliendo sempre le palme del suo successo come sarebbe avvenuto più e più volte in futuro. Con un sorriso gli ritornò in mente la volta che aveva contraddetto un barone dell’ateneo.

“Professore illustrissimo, vorrei farle presente che la traduzione di questa epigrafe sul testo è errata: il termine aramaico pharsin non significa “Fariseo”, ma “diviso”, come certamente saprà.” Il professore, neppure a dirlo, bocciò tanta impertinenza in quel giovane studente magrolino (salvo poi affrettare una ristampa della sua opera corretta). Quell’episodio lo fece diventare il beniamino dei suoi compagni, ma gli insegnò anche un’altra e più importante lezione. Per quanto ci sforziamo di tradurre le iscrizioni antiche, rifletteva, esse saranno sempre fallaci, occorre pensare come gli antichi e capire il modo che avevano di esprimersi nella loro lingua originale. Non significa semplicemente innamorarsi dell’antico idioma aramaico, con i suoni semitici che gli appartengono, ma riconoscere che ogni civiltà appartiene al suo tempo e quindi nessun’altra potrà ergersi come assoluta o superiore, nemmeno nella lingua. Kalid tendeva a considerare la storia, anche quella siriana, non come patrimonio esclusivo del paese che ne ospitava le vestigia, ma come elemento incastonato nella storia mondiale. Scandalo aveva suscitato il suo scrivere saggi usando i termini originali affiancati da quelli occidentali per indicare antiche città o località il cui nome arabo era ben poco noto fuori dai confini nazionali. Queste sue aperture e cosmopoliticità erano alquanto sconvenienti presso i nuovi padroni della città.

Com’era strana e contrastante la vita. Avrebbe dovuto essere elusivo e scivoloso come l’interno di una condotta di petrolio, come quando rifiutava le cariche all’università per far parte di spedizioni e scavi condotti in siti assolutamente inospitali e privi della minima brezza ristoratrice, da dove anche il più coriaceo degli scorpioni sarebbe uscito cotto. Ma lui no, cresciuto nel deserto, a dispetto dei colleghi americani, francesi, tedeschi e svizzeri con i quali, alla fine, aveva stretto delle splendide amicizie. Li aveva coinvolti tutti e contagiati con la sua passione: per lui, riportare all’attenzione dei contemporanei un frammento, per quanto piccolo, soprattutto ricollocarlo nella sua dimensione originaria di spazio e di tempo era infatti una gioia assoluta, come lo era stato ascoltare la fine di una lunga storia dal cencioso cantastorie della sua infanzia.

Rise ripensando a quando era stato incaricato di seguire la situazione archeologica nel paesino di Tadmor, governatorato di Homs, in mezzo al deserto. Aveva solo 29 anni. Quelle quattro colonne derelitte giallo chiaro che affioravano dalle sabbie infuocate, ricoperte da secoli di oblio e diverse tonnellate di rifiuti dal puzzo che avrebbe disgustato anche il più raffreddato degli sciacalli, non avrebbero avuto nessuna attrattiva per un rampante giovane archeologo in cerca di gloria, tanto più che la fonte d’acqua antica s’era prosciugata e il vicino paese era abitato solo da pecorari che usavano la propria barba (donne comprese) al posto della carta vetrata.

Ma per Kalid tutto questo era stato di secondaria importanza. Preso com’era dal delirio dell’incarico, diceva a se stesso al culmine della felicità: “Ti rendi conto? Io, proprio io, adesso, mi posso…no, mi devo occupare delle rovine appartenenti a una delle più significative città dell’antichità! Sulla via delle carovane per l’oriente! Chissà quante erano? Che colori, profumi, lingue differenti! Una città in bilico, per ere ed ere, tra grandi imperi. Imperi che (sì! ma sì!) nascevano, si sviluppavano e cadevano intorno a essa! Le sue mura avranno visto le armate dei seleucidi, le legioni romane, i cavalieri catafratti parti e, per finire, i bizantini!!”

Le sue oniriche elucubrazioni non venivano minimamente scalfite dal risveglio che ogni mattina lo schiaffeggiava speranzoso mostrandogli le condizioni assolutamente deprecabili e di abbandono totale del sito. Chiunque ne sarebbe uscito sconfitto, demotivato e i suoi collaboratori, ma anche i suoi superiori, lo guardavano con gli occhi interrogativi e un po’ bonari di chi pensa: “Allora? Quand’è che molli?”

Kalid, a differenza loro, sapeva bene che il vero tesoro non appariva in superficie, ma era ancora da far emergere, o meglio, l’azione stessa di far riemergere le antiche vestigia era il tesoro, pensava, mentre una smorfia vagamente ipotizzante un sorriso alterava il suo ispido e duro volto, risultato dei milioni di incroci dei suoi predecessori. A 29 anni era stato dunque nominato responsabile del sito e del relativo museo. Beh, insomma, se museo poteva chiamarsi la stanza assegnatagli con una mezza dozzina di reperti sottratti a stento ai predatori di rovine!  E ora la storia sembrava essere ritornata indietro nel tempo, con i predatori di nuovo liberi in città…

Fine prima parte.

Leggi la seconda parte del racconto.